
LE TANTE STORIE DI SPORT DENTRO LA PRIMA INSALATIERA ARGENTINA
C’è sempre una ricchezza di contenuti dentro la prima volta che non si scorda mai, una pluralità di micro-avvenimenti che insieme costituiscono il fatto e lo consegnano dritto ai libri di storia, agli archivi della memoria, facendolo diventare uno di quei racconti di sport che emozionano senza tempo. L’Argentina che alza finalmente al cielo la sua prima Coppa Davis, dopo le quattro finali perse tra il 1981 e il 2011, è la smentita di una maledizione attraverso un’altra condanna, quella dei croati sempre sconfitti quando hanno incrociato le racchette con i sudamericani. E’ l’impresa di afferrare l’insalatiera dopo essere stata sotto 2-1 nel parziale e due set a zero nel primo singolare della domenica, a pochi passi dall’incubo della quinta finale persa su cinque. E’ l’entusiasmo incontenibile di una tifoseria che all’Arena Zagreb ha portato la gioiosa fierezza dell’ essere argentini – “esto sientimento no se puede parar” cantavano a squarciagola i mille aficionados volati oltreoceano – in una declinazione calcistica del tennis che ha richiesto più volte l’intervento dello speaker dell’impianto croato, giusto per ricordare che le tribune dello stadio non erano quelle della Bombonera di Buenos Aires.
Per un popolo malato di calcio – come e forse più dei cugini brasiliani – ma pronto a sostenere la propria Nazionale in ogni latitudine sportiva, questa Coppa Davis vale tanto: un pò perchè dentro c’è la gioia che ti danno le cose a lungo attese e più volte sfiorate, la stessa che era pronta a esplodere per esempio nell’indoor di Mosca esattamente dieci anni fa, quando David Nalbandian da solo stava per battere la Russia di Nicolay Davydenko e Marat Safin che s’impose poi solamente nel quinto match. Un altro pò ancora perchè lo zero nel tennis era lo specchio delle delusioni calcistiche dell’ultimo trentennio, tante e troppe per un Paese abituato ad avere in squadra i giocatori universalmente riconosciuti i più forti del pianeta delle ultime due generazioni: uno, Leo Messi, ormai detestato dalla gran parte dei suoi connazionali perchè vincente con la propria squadra di club tanto quanto incapace di successi con l’Argentina. L’altro, Diego Armando Maradona, ultimo ad avere regalato alla sua gente un trionfo mondiale più di trent’anni fa, protagonista a modo suo in questa tre-giorni di Zagabria: capo-ultras scatenato della torcida biancoceleste, nelle sue esultanze per i quindici argentini c’era forse proprio il desiderio di sublimare l’astinenza da trofei con l’insalatiera d’argento del più antico campionato a squadre nazionali di tutti gli sport.
Per il Pibe de Oro e per tutti gli sportivi argentini questa è una vittoria che vale tanto infine perchè in ognuno dei protagonisti dell’impresa possono ritrovare i tratti distintivi dell’identità latina e argentina in particolare. Nella “garra” di Leo Mayer, per esempio, che da numero 114 del mondo dentro la bolgia dell’Emirates Arena di Glasgow contro la Gran Bretagna campione in carica ha battuto Dan Evans regalando il punto del pass per la finale e poco importa poi se il doppio di sabato ne ha messo a nudo i limiti tecnici. Oppure negli occhi spiritati di Federico Delbonis, che per nulla al mondo si sarebbe fatto sfuggire l’occasione di vincere il match più importante della sua carriera, neppure se Ivo Karlovic – improbabile sostituto dell’infortunato Borna Coric – avesse azzeccato qualche altro colpo oltre la raffica di ace messi a segno con la forza della disperazione. Più di tutte, ovviamente, è stata il pugno alzato di Juan Martin Del Potro l’immagine chiave grazie alla quale ogni argentino ha potuto e potrà identificarsi in questa impresa dell’Albiceleste.
Poteva essere successo già qualche anno prima, nella finale del 2008 a Mar del Plata quando insieme a Palito poco più che ventenne c’era ancora Nalbandian e la Spagna di David Ferrer e Feliciano Lopez non era un avversario imbattibile. Oppure nel 2012, quando i primi fastidi al polso sinistro impedirono al campione di Tandil di scendere in campo per conquistare il punto decisivo nella semifinale contro la Repubblica Ceca e fu accusato di scarso attaccamento alla maglia. La tempra con la quale Delpo è riuscito a ribaltare il match contro Marin Cilic al termine di cinque ore di battaglia è la sintesi di come sia stato capace di ricostruirsi una seconda carriera dopo due anni di quasi inattività. C’è da giurarci che per lui e per gli altri, compreso il gregario Guido Pella e il capitano Daniel Orsanic – decisivo nel mediare il suo reinserimento in squadra – il rientro in patria sarà bello almeno quanto la notte magica di Zagabria.
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